Presentando nel 1970 la traduzione italiana dell’unico libro di Bruno Schulz, “Le botteghe color cannella”, Italo Calvino non esitava a professare la sua commossa ammirazione: “Da oggi la letteratura europea del Novecento conta tra i suoi maestri un nome in più”. A distanza di circa trent’anni Ugo Riccarelli, dopo una frequentazione che presumo assidua e incantata, scrive un romanzo intitolato “Un uomo che forse si chiamava Schulz”. E’ la storia dello scrittore ebreo-polacco ispirata dal libro e dalla biografia, ma anche dai vuoti del libro e della biografia, nel ricordo delle carte disperse e di una fine immatura e atroce.
Schulz era nato a Drohobycz, nella Galizia austroungarica, che, dopo essere diventata polacca e poi sovietica, appartiene oggi all’Ucraina, in una vicenda metamorfica che lui avrebbe saputo apprezzare. Morì, abbattuto da un colpo di pistola alla testa, nel ghetto della città natale. Prima di riconoscersi scrittore era stato un originale pittore, e si sentiva rassicurato dal capitano tedesco, Landau, di cui aveva eseguito il ritratto e affrescato le pareti di casa. Ma un altro ufficiale nazista, per vendicarsi del collega che aveva mandato a morte un suo protetto, uccide Schulz, identificato anonimamente come “il giudeo di Landau”. Definendo il suo triste eroe “Un uomo che forse si chiamava Schulz”, Riccarelli non intende tanto cautelarsi contro eventuali imprecisioni o fraintendimenti ma riscattare, con un supplemento di scavo e di pietà, quel nome negato.
Immagina che sia lo stesso Schulz, sotto la canna della pistola, a ripercorrere la sua intera vita, come un caleidoscopio scosso dalla mano del destino. Esce dal ventre materno con “riluttanza”, avverte più di quanto non accada comunemente la stranezza di essere tenuto per i piedi, con la testa all’ingiù. Quella testa pesante che tenderà sempre a piegarsi verso terra: dove contempla i graffi e le minuzie del pavimento, il tramenio degli insetti che rodono la casa, le presenze umane rivelate dalla foggia delle scarpe. Con intuizione sicura, Riccarelli disegna così la condizione di solitudine a avvilimento, propria di chi crescerà sforzandosi di “passare inosservato lungo i muri della storia”.
Sarà il padre visionario, il mercante di stoffe Jakub, che lo induce a sollevarsi in un mondo di quotidiane fantasmagorie, a spaziare in cieli tumultuosi, in una festa panica di colori e prodigi. E’ un demiurgo bizzarro che contende al Dio dei padri e all’Imperatore dalle lunghe fedine il diritto di manipolare la materia, di infrangere le regole, di smemorarsi con le collezioni di insetti, i manichini, le ibridazioni di uccelli esotici, le più strampalate teorie.
Non è un caso che il piccolo Bruno, nell’immaginazione del suo interprete, attenti con involontaria profanazione alla Bibbia conservata nel tempio: lui che è affascinato dalla ricerca del Libro Autentico, riconosciuto di volta in volta nel registro della bottega paterna, nelle riviste illustrate con cui viene accesa la stufaÖ Ma la sregolatezza è ammessa soltanto nella dimensione dell’infanzia, che è la vera maturità e colora di fiaba gli anni del tramonto asburgico, minacciati dal “sacrilegio del Cambiamento”. (Quello che, annunciato dalla effimera febbre del petrolio, condurrà alla prima guerra mondiale, all’invasione sovietica e nazista). Si spiega così come Schulz, a eccezione di qualche breve viaggio a Leopoli, Vienna, Parigi, decida di rinserrarsi a Drohobycz, a fare l’insegnante di disegno, a coltivare sogni fiammeggianti.
Riccarelli procede con fedeltà alle fonti e illuminanti invenzioni. Penso al padre che attribuisce ogni sciagura all’imperfetto dosaggio del sale nell’alimentazione: il sale che è seme di sapienza ma è anche la sostanza biblica in cui sono trasformati gli uomini che Dio ha abbandonato, “statue immobili nelle circonferenze dei giorni”. E penso alla storia del Messia, oggetto di un romanzo perduto di Schulz. Si sparge nel ghetto la voce che sia vicino, scende dai Carpazi per fare giustizia, e Bruno è mandato ad avvistarlo.
Scoprirà davanti a uno zingaro crocifisso che l’atteso Messia non è altri che il Reich. Quello che li tiene avvinti e ne farà strame. Riccarelli non ricorre alle immagini lussureggianti, alle rampollanti metafore del suo autore. Anche se lievitata a momenti da uno humour di chiara derivazione chassidica, il tomo dominante è quello di una asciutta, sommessa trenodia.